La predisposizione all’Obesità può essere scritta nei geni

Studio inglese condotto da un italiano: esiste una variabilità individuale nella capacità di utilizzare i carboidrati. Lo stile di vita però può comunque cambiare il «destino»

obesità
Alcune persone ingrassano più di altre pur consumando lo stesso alimento nelle medesime quantità. Questa una delle tante evidenze difficili da accettare per chi si cimenta in un regime alimentare volto a perdere peso e percepisce quindi la sua condizione come una malaugurata “sventura” dettata da un avverso destino. Attività fisica e alimentazione sana possono però cambiare le carte in tavola.

Come utilizziamo i carboidrati
Dalla scienza arriva la conferma: esiste una variabilità individuale nella capacità di utilizzare i carboidrati. Tale variabilità potrebbe essere alla base della maggiore o minore tendenza a sviluppare condizioni quali l’obesità o il diabete di tipo 2. A dirlo è uno studio pubblicato sulla rivista Diabetes che dimostra come vi sia una correlazione fra le concentrazioni nel sangue di una sostanza chiamata amilasi salivare, essenziale per la digestione degli amidi, e la maggiore o minore predisposizione al consumo di alimenti a base di amido, come la pasta, il pane, o le patate. «In studi precedenti avevamo osservato come, nella popolazione generale, vi siano differenze nei processi di sintesi delle amilasi», spiega Mario Falchi, professore associato presso il King’s College di Londra, che ha coordinato lo studio. «In particolare, avevamo osservato che individui che presentano nel proprio patrimonio genetico un elevato numero di copie del gene che porta l’informazione per la sintesi dell’amilasi presentano nel sangue maggiori concentrazione di questa sostanza. In altre parole, c’è una variabilità genetica, fra individuo e individuo, nella produzione di questo fattore necessario alla digestione degli amidi. Alcuni ne hanno di più, altri meno, e la presenza di bassi livelli di amilasi è stato associato, dal nostro studio e da altri, a una maggior predisposizione a contrarre malattie metaboliche».

L’importanza delle scelte
«Lo stile di vita può aiutarci a contrastare un’eventuale predisposizione. Una alimentazione sana e diversificata, evitare fumo e ridurre il consumo di alcol e, soprattutto, una moderata attività fisica quotidiana rappresentano l’armamentario più efficace nel contrastare ciò che è scritto nei nostri geni. E funziona, non dobbiamo dimenticarlo», continua Mario Falchi. Popolazioni con alimentazione tradizionale a base di carne mostrano in media meno copie del gene per l’amilasi salivare rispetto a popolazioni dedite all’agricoltura, che quindi si sono adattate ad un consumo maggiore di amidi. Inoltre, all’interno delle popolazioni il numero di copie varia da persona a persona. Oggi, in seguito alla globalizzazione alimentare, chiunque ha accesso ad alimenti con alto contenuto di amido. La presenza o meno di amilasi condiziona la nostra capacità di digerirli e quindi di essere potenzialmente predisposti a contrarre malattie metaboliche.

Il campione per lo studio
«Con questo nuovo studio ci siamo posti l’obiettivo di comprendere le ragioni della correlazione fra amilasi e obesità. Abbiamo pertanto avviato uno studio clinico che ha coinvolto un campione di soggetti ben definito. Siamo partiti da un campione formato da 100 donne, normopeso, con valori normali di glucosio, di età intorno ai 40 anni e con le stesse abitudini alimentari. Unica differenza fra soggetti era che metà di loro aveva un elevato numero di copie del gene che porta l’informazione necessaria per la produzione di amilasi salivare e l’altra metà un ridotto numero di copie dello stesso gene – spiega Mario Falchi – . Siamo quindi andati a osservare eventuali differenze nel metabolismo fra i due gruppi. In particolare, nel secondo gruppo quello cioè formato da donne che avevano a disposizione quantità ridotte di amilasi, abbiamo trovato ridotte concentrazioni nel sangue di acidi grassi a lunga e media catena e aumentate concentrazioni, rispetto al primo gruppo, di sottoprodotti del metabolismo dei lipidi compresa una sostanza chiamata alfa-idrossibutirrato. Quest’ultima rappresenta un importante campanello d’allarme in quanto correlata al rischio di sviluppare diabete di tipo 2».

Le ricerche future
«Tutte queste evidenze suggeriscono che le persone con bassi livelli di amilasi non riescono a utilizzare il glucosio che deriva dagli amidi come dovrebbero e, per produrre energia, utilizzano i lipidi. Questa alterata tolleranza al glucosio derivante dagli amidi è un fattore di rischio per lo sviluppo di insulino-resistenza, e quindi obesità e diabete di tipo 2», continua lo studioso. «Le evidenze emerse da questo e da altri studi pongono le basi per immaginare un futuro in cui, grazie a dei test che consentono di misurare la quantità e il tipo di attività dell’amilasi salivare, sarà possibile prevedere un’eventuale predisposizione all’obesità o ad altre patologie metaboliche andando quindi ad agire di conseguenza per esempio tramite regimi dietetici personalizzati».

Fonte Corriere.it a cura di Chiara Finotti

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