Carlo De Benedetti: l’editoria d’informazione e la sfida digitale

Carlo De Benedetti

Carlo De Benedetti

Per quattro secoli l’editoria d’informazione ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo della civiltà moderna, soprattutto attraverso i giornali cartacei che la rivoluzione digitale sta marginalizzando. Come governare il tumultuoso cambiamento salvaguardando il giornalismo?

Se un editore parla a un festival di Internet ci si potrebbe attendere – superficialmente – che torni ad elencare i problemi che la tecnologia digitale ha creato e le loro possibili soluzioni. Arriveremo anche a questo, ma credo che sia più importante inquadrare i nostri specifici problemi di editori – e di editori giornalistici! – all’interno della vera e propria rivoluzione culturale che tutta l’umanità sta vivendo, delle sfide che questa rivoluzione propone non solo ai cosiddetti “media” ma a ciascuno di noi come cittadini consapevoli.

D’altronde è bene che ci chiariamo: il digitale non è solo un “nuovo mezzo” che sta sostituendo in parte o in toto altri mezzi (carta, tv ecc.): il digitale è un universo che vive secondo leggi tanto diverse dal passato quanto la fisica moderna è diversa da quella di Galileo e Newton.

Le nuove leggi dell’universo digitale rendono incerti o comunque mobili tutti i confini: tra produttori e consumatori, tra comunicatori e fruitori delle informazioni, tra prodotti diversi, tra contenuti e mezzi per comunicarli e diffonderli, tra gli stessi settori industriali e professionali per come siamo abituati a concepirli.

Allora prendiamo subito il toro per le corna e poniamoci una prima, radicale domanda: in un universo nel quale l’attività del “pubblicare” è diventata un bottone che chiunque può cliccare – come ha provocatoriamente sostenuto lo studioso americano Clay Shirky – ha ancora un senso parlare di industria della pubblicazione, cioè di editoria? In particolare dell’editoria giornalistica? E se ha ancora un senso, che cosa la distingue da altre attività intellettuali ed economiche che possono far capo a chiunque, singoli individui o a grandi corporation con altri core business?

Il problema, che chiamerei “politico”, è che nell’universo digitale non tutti i cittadini possono e vogliono informarsi in modo attivo su ogni argomento di loro interesse o d’interesse per la loro comunità di riferimento. Ci sarà anzi sempre una maggioranza di persone che in toto o in parte affiderà di fatto la selezione delle proprie informazioni o di parte delle proprie informazioni a fonti terze. Che vorranno credibili e autorevoli. Quali saranno queste fonti e secondo quali criteri effettueranno la loro proposta informativa?

Personalmente sono convinto che c’è ancora un ruolo fondamentale da svolgere per le testate giornalistiche, cioè per le organizzazioni che per professione ricercano, selezionano, gerarchizzano e propongono le informazioni secondo criteri stabiliti all’interno di un rapporto fiduciario tra esse e il loro pubblico.

Il fatto che questo ruolo sia ancora essenziale, non vuol dire che inevitabilmente ci sarà. L’universo digitale ha messo in crisi tutti i media di massa (la carta stampata ne è solo la prima e più visibile vittima), in particolare il modello classico dei media giornalistici. In altre parole, è in crisi il modello di sostenibilità economica dei giornali. Dunque vanno ridefiniti il prodotto giornalistico e l’organizzazione del lavoro necessaria per crearlo.

Anzitutto, c’è una buona notizia: i giornali soffrono ma il giornalismo sta vivendo la sua migliore stagione da sempre. Per merito della tecnologia di massa, qualsiasi fatto può essere documentato e raccontato in tempo reale: ovunque c’è uno smart phone che ferma l’evento e i suoi protagonisti, qualcuno che lo twitta e ritwitta, un giornalista che controlla e rilancia. Nel giro di minuti.

Le inchieste giornalistiche possono raccontare quasi in diretta fatti e realtà che un tempo sarebbero state celate. Pensate all’eversione del Piano Solo, alla strage di My Lai, allo scandalo Watergate, alle liste della P2, che all’opinione pubblica nazionale o globale arrivavano dopo mesi o addirittura anni. Oggi l’accesso all’informazione condivisa, la ricerca in fonti tematiche profondissime, l’uso dei grandi dati, la possibilità di raggiungere chiunque ovunque rendono più semplice e più rapido quel che un tempo era più difficile e più lungo.

L’incredibile successo dei tablet – il primo iPad fu presentato da Steve Jobs il 27 gennaio 2010 – sta moltiplicando il numero dei lettori che in qualsiasi momento della giornata accedono alle informazioni. Scritte o in video. Un americano e un britannico ogni tre possiede un tablet, in Italia siamo qualche punto sotto ma basta viaggiare su un Frecciarossa o bere in caffè in una piazza romana con il WIFI per rendersi conto di quante persone leggono i giornali con l’iPad. In buona parte, non giovanissimi: più trenta-quarantenni che teenager.

Ma c’è anche una notizia meno buona, ed è che nell’universo digitale l’informazione – come la musica, come l’intrattenimento – viene considerata da molti una commodity a basso o nessun prezzo. Mentre restano altissimi i costi a carico di chi quell’informazione la confeziona giorno dopo giorno. Penso – per fare un esempio – a Repubblica e al suo fondatore, Eugenio Scalfari, che hanno con pazienza e costanza costruito uno dei recenti grandi exploit del giornalismo ossia la corrispondenza e poi l’intervista con Papa Francesco. Quelle pagine dove la ragione e la fede hanno pubblicamente dialogato con effetti emozionanti sono il frutto degli investimenti che la nostra testata, chi ci lavora, il suo direttore e l’editore hanno fatto per decenni: quasi quattro, per la precisione. Se ora si smettesse d’investire in qualità, non avremmo la speranza di avere altrettanto straordinari effetti in futuro.

E se non si continuasse a investire in ricerca e tecnologia, come il Gruppo che presiedo fa con convinzione, accadrebbe lo stesso, perché in brevissimo tempo diventeremmo obsoleti ed espulsi dal flusso della comunicazione. Quindi, dobbiamo saper coniugare qualità giornalistica e presenza su tutte le piattaforme, carta, pc, video, radio, tablet, smartphone e qualsiasi altra di prossima disponibilità.

La questione del finanziamento dell’informazione è centrale. Permettetemi di tornarci e di dare qualche dato. Fino a pochi anni fa la pubblicità era per gli editori “tradizionali” come noi un flusso di ricavi certo, che consentiva di tenere alta la qualità giornalistica e di investire in nuovi prodotti. La realtà è profondamente mutata. In tutto il mondo e Italia abbiamo assistito a un incoercibile prosciugamento/trasferimento di queste risorse. Da noi dal 2006-2007 non c’è stata alcuna interruzione nel calo degli incassi pubblicitari, mentre nello stesso tempo sono diminuiti i ricavi da abbonamenti e vendite.

In Gran Bretagna si è passati dal 100 per cento degli investimenti pubblicitari incassati dagli editori nel 2000 al 90 per cento del totale nel 2005, giù giù fino al 64 per cento previsto per il 2014. Oggi in UK il 36 per cento della torta pubblicitaria va a non-editori.

Accade cioè che stanno esplodendo i ricavi di motori di ricerca, aggregatori, social network che usano i prodotti del lavoro giornalistico altrui per attrarre utenti che vengono immediatamente valorizzati grazie alla distribuzione di pubblicità in modo mirato (come fa Google grazie all’incrocio dei dati ottenuti dalla miriade di servizi propri).

Ripeto: una quota crescente della pubblicità va già adesso a soggetti che non sono editori, nel senso che non hanno come mission la produzione di informazioni: si occupano di e-commerce e distribuzione di prodotti fisici, di organizzare le ricerche sulla rete come Google (che raccoglie in Italia circa 800 milioni di euro ogni anno) oppure di mettere in contatto fra di loro centinaia di migliaia di persone, come fa Facebook. E raccolgono pubblicità. Per non lasciar squilibrare in misura non recuperabile la situazione, bisogna intervenire rapidamente con norme che ridistribuiscano le risorse correttamente rispetto agli investimenti per la costruzione dei contenuti.

E’ qui che ci dobbiamo chiedere se l’evanescenza dei confini e l’ibridazione dei settori proprie del mondo digitale non stiano dicendo qualche cosa di radicalmente nuovo anche a noi editori. E’ ancora logico dividere in modo così evidente l’industria culturale in “produttori” e “diffusori”? In “contenuti” e “canali di distribuzione”? Ha ancora un senso la distinzione che – per esempio – continua a fare Google che si definisce una “technology company”, distinta da una “content company”?

Non si tratta di questioni filosofiche, ma di concrete sfide che mettono utilmente in crisi il quadro di certezze cui 200 anni di mezzi comunicazioni di massa ci avevano abituati. Da parte nostra queste domande, per quanto scomode, non ci fanno paura, come dimostra il fatto stesso che ne parliamo pubblicamente.

Ma se questa cornice concettuale ha un senso, ne deriva che i grandi player che definiscono se stessi “tecnologici” o “commerciali” debbano essere soggetti alle stesse regole cui siamo soggetti noi, che ancora amiamo definirci “editori”. Di qui nascono le azioni al livello nazionale e sovranazionale, dall’esigenza di avere un “plain level field”, un campo dove i soggetti possano farsi concorrenza alla pari, senza sfruttare indebitamente posizioni dominanti in mercati dove anche un editore classico, divenuto digitale, deve poter emergere. Chiediamo:

• parità di condizioni nelle indicizzazioni

• libertà di rapporti commerciali con i propri clienti

• parità di normative per la protezione dei dati personali …e così via.

Capisco che a volte queste battaglie possano apparire corporative, ma non lo sono. L’editoria giornalistica conduce battaglie che si intrecciano strettamente con il futuro della democrazia moderna. Se le nuove piattaforme digitali sono, come sono, la nuova piazza dell’espressione pubblica, la libertà d’impresa degli editori nel contesto digitale non è così diversa dalla libertà di espressione degli individui.

La transizione al digitale è, per chi viene da storie e tradizioni antiche, è faccenda complessa, ma se ci si pongono le domande giuste si è a metà strada nella ricerca delle soluzioni. Ci piacerebbe che tutti i nostri interlocutori, siano professionali, industriali e – perché no? – politici, accettassero di fare almeno una parte di questa strada con noi: se condividessimo almeno le domande, poi anche eventuali risposte diverse sarebbero tutte utili alla ricerca della soluzione – o meglio, delle soluzioni.

Esiste un giornale un po’ particolare, vecchio di 279 anni che alla fine di quest’anno passerà totalmente al digitale. E’ la londinese Lloyd’s List in continua pubblicazione dal 1734. Un po’ particolare perché – come dice il suo direttore Richard Meade – le informazioni molto settoriali della testata (che si rivolge a spedizionieri, armatori, assicurazioni) sono facilmente digitalizzabili e senza grande concorrenza. Loro, editori specialistici, ci sono riusciti, ma ci riusciremo anche noi editori cosiddetti “generalisti”.

Andate sul sito della Gazzetta di Mantova, uno dei quotidiani del Gruppo Espresso, e vedrete formarsi sotto i vostri occhi il futuro del più antico giornale italiano ancora in pubblicazione. Nato nel 1664, quasi tre generazioni prima di Lloyd’s List…

Fonte Espresso di Carlo De Benedetti

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